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Il sogno di una scuola buona - Don Lorenzo Milani |
Monday 22 January 2018 | |
Qualche anno fa (ma se ne parla già nel 2014), col governo Renzi, nasce in Italia la “scuola buona”, una sorta di riforma strutturale, organizzativa e in parte contenutistica. Non so quanti si accorsero che la parola “buona” si contrapponeva alla parola “cattiva” che i giudici attribuivano alla “scuola di Barbiana” di don Lorenzo Milani. Questi, nella Lettera ai giudici scrive: «Io, maestro, sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona». Ovviamente la “scuola cattiva” era quella di Barbiana il cui manifesto troviamo nella più celebre opera di don Milani: Lettera ad una professoressa, del maggio 1967. Veramente è errato chiamare quella “Lettera” opera di don Milani, perché scritta – col metodo della scrittura collettiva – da tutta la scuola: maestro ed alunni. Barbiana sorge a pochi chilometri da Firenze, ma non è abitata da colti toscani, solo da una quarantina di “cafoni” in miseria ed arretratezza cronica. Questo luogo sperduto dell’Appennino è il definitivo confino-esilio che Milani subisce dall’autorità ecclesiastica. Vi giunge il 7 dicembre del 1954, a 31 anni. La sua prima destinazione era stata la parrocchia di San Donato a Calenzano (borgo operaio politicizzato) dove aveva fondato la “Scuola popolare” perché si accorgeva che la gente non lo capiva, aveva un bagaglio di parole adatto solo a discutere di cose fin troppo pratiche. I ragazzi e gli adulti soffrivano di pauperizzazione della “parola”. Da San Donato scrive su “Adesso”, il noto quindicinale di don Mazzolari. I suoi toni non sono felpati, curiali. Il giovane cappellano non parla, non scrive, “tuona”. Associandosi a quella corrente di pensiero che nasce attorno al cardinale Elia Dalla Costa con Balducci, Turoldo, La Pira, Barsotti, Fabbretti, ecc. Questo cappellano “scomodo” non diventerà mai parroco di San Donato. La curia preferisce esiliarlo inviandolo, appunto a Barbiana. Era il 6 dicembre 1954. Chi lo manda crede di avere tappato una bocca ed un cuore pieno di fede e di vita. Se ne accorgono presto che non hanno trapiantato una debole piantina, ma autentica “gramigna” quella che più la calpesti e più si espande. Chi si aspettava che con l’esilio la Scuola popolare di San Donato sarebbe morta, resta deluso. Trapiantata a Barbiana essa diventa una sorta di spartiacque. Diciamo subito che a Barbiana don Lorenzo non si limita ad essere maestro di scuola. Nel 1958 scrive Esperienze pastorali, libro che lessi anche io, assieme ad altri giovani teologi, e ci fece pregustare l’aria nuova che sarebbe stata realtà ufficiale solo col Concilio. Non era un libro proibito, ma meglio non leggerlo se si voleva fare carriera. Con quel volume Don Milani rischia davvero a nome di tutti. La sua stessa vita viene sacrificata sull’altare dello scandalo in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere commenti alla Scrittura, riassunti del catechismo e poi via a dir messa in latino.
Da Barbiana, nel 1965, parte un invito alla disobbedienza rivolto ai cappellani militari, L’obbedienza non è più una virtù. Questo testo gli frutterà una condanna post mortem. E sempre a Barbiana nasce il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa. È l’aprile del 1967. Almeno per una generazione di insegnanti e di giovani fu un punto di riferimento. Ancora oggi, quel minuscolo fascicolo è punto ineludibile di riflessione per chi vuole davvero riformare il sistema educativo, ed anche – bisogna dirlo – sponda “vitanda” di quanti hanno costruito una esecrazione del ’68 e dei pochi anni successivi che videro vere e proprie battaglie sulla scuola. Il “donmilanismo” – dicono – è l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori. Ci basta dire che sentirsi destinatari di quella “Lettera” non lascia indenne nessuno. Pro o contro che sia.
Una scrittura collettiva per “uscire insieme”, politicamente
“Lettera a una professoressa” è il risultato di anni di lavoro e riflessione sulle storture del sistema scolastico italiano e si propone di urlare un “Basta!” al ritardo con cui la politica attua il dettato costituzionale che prevede il diritto allo studio uguale per tutti. Occasione per la sua stesura fu la bocciatura di due ragazzi della Scuola di Barbiana agli esami di ammissione alle Magistrali.
In realtà Lettera a una professoressa è un libro per la scuola scritto da chi non ha scuola. Succedeva in quei tempi. La Teologia della liberazione era voce di chi non ha voce, per questo suscitava ire omicide in chi deteneva le leve del potere e speranze in chi ne era vittima. Qualcosa del genere suscita la “Lettera”. Questo è un punto centrale, che tocca anche il cuore di un maestro che non dimentica mai di essere prete. Il libro non è un testo scritto per i ragazzi che amano andare a scuola e poi sono lieti di andare all’Università. No, è per i ragazzi che “fanno forca”. Che scappano da scuola. Non è un libretto che parla ai genitori dei “pierini” volenterosi e bravi, ma ai genitori di quei ragazzi che all’università, non ci arriveranno mai, ma possono avere la chance di continuare a dirsi umani e cittadini. Per i genitori di quei ragazzi che dai prof si sentono dire: “Suo figlio è un disastro, lo mandi a lavorare. Non è adatto a studiare. Qui perde tempo”. Si parte da un dato di fatto. In Italia la scuola è di classe. “È una scuola per ricchi, per i Pierini d’Italia” che la riforma delle scuole medie del 1963 non aveva scalfito.
Col suo semplice esserci, la scuola di don Milani è insieme una spietata denuncia nei confronti della Democrazia Cristiana che ha occupato con ministri cattolici quel Ministero della Pubblica Istruzione (vi furono solo 6 ministri laici su 34), ma anche un proposta chiara, meglio, una testimonianza concreta di contro-scuola possibile e davvero democratica.
In una democrazia vera, e non di facciata, bisogna prendere atto della realtà. Se ci sono disparità nella cultura e nella dignità umana, bisogna prefiggersi non di dare a chi ha ma di dare di più a chi non ha o non è. Paradossalmente una “scuola di tutti” finisce per essere scuola per chi non ha bisogno di scuola. Una scuola democratica rimuove gli ostacoli per la crescita umana e culturale di coloro che si trovano svantaggiati. Nel suo linguaggio don Milani esprime questo dicendo che non si può essere “uomo di tutti”, non si può avere una scuola di tutti, non si possono amare tutti. Ad una giovane, Nadia Neri, scrive: «So che a voi studenti queste parole fanno rabbia”, che vorreste ch’io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti, ma forse è proprio qui la risposta alla domanda che mi fai. Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo l’hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio». Previo a tutto ciò la ricerca e l’esperienza in Don Lorenzo, di una vita davvero umana, rispettosa del cammino degli altri, piena di senso di “paternità”, sofferente per la bellezza offesa, dolente per i “fallimenti” incontrati, desiderosa di vedere fiorire la vita.
Chi non ha passione per la vita non sarà mai capace di una relazione di aiuto. Forse la causa più profonda in Italia della mancata attuazione dell’articolo 3 della Costituzione sta nel fatto che la passione per la vita non è il centro del nostro agire politico. Lo stile della “Scuola” di una “parrocchietta”
Forse per comprendere lo spirito che anima la Scuola di Barbiana e la “Lettera” è utile riportare una dichiarazione del Priore ad alcuni confratelli presbiteri, e qualche suo colloquio con responsabili della scuola ufficiale.
1. La dichiarazione
«Se mi domandate perché faccio scuola, rispondo che faccio scuola perché voglio bene a questi ragazzi. Come voi mandate a scuola i vostri figlioli, così io ci tengo che i miei figlioli abbiano scuola: questa è una cosa affettiva, naturalissima. Mi pare non ci sia neanche da perdersi a spiegarla. Dal punto di vista proprio di parroco, ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicarlo in greco non si può perché non intendono. Sicché, bisogna predicarlo in italiano. Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendano l’italiano. Questa è quella cosa che io nego. Quantunque i miei parrocchiani siano toscani, quantunque usino espressioni dantesche ogni poco, non son capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì, o nei pettegolezzi delle famiglie.
Una lingua così povera non è assolutamente sufficiente per ricevere la predicazione evangelica. Questa è la condizione, direi di ordine pastorale, che non dovrebbe direttamente interessarvi, ma vi spiega un po’ perché mi occupo di questa cosa. Su questa premessa, cioè considerandomi un missionario in un paese straniero di cui non conosco la lingua, io avevo ancora la possibilità di studiare la loro lingua e parlare il loro linguaggio, ma mi dispenso dal dimostrarvi che questo linguaggio non esisteva.
Non si può parlare la loro lingua perché è una lingua di basso interesse, di bassi vocaboli. Non bassi in senso cattivo, ma non elevati. Ed io non mi ci abbasso a livello dei miei parrocchiani. Abbassarsi al loro linguaggio e non dire più cose alte, a me non va. Io seguito il mio linguaggio alto e quindi o loro vengono al mio linguaggio o non ci si parla. Ecco perché io ho iniziato il mio apostolato dalla scuola, con l’insegnare la grammatica italiana.
Alla fine è successa questa disgrazia d’innamorarmi di loro ed ora mi sta a cuore tutto quello che sta a cuore a loro. Ecco perché questa scuola poi è diventata una scuola, diciamo così, laica, severamente laica. Sono partito con l’idea di fare della scuola il mezzo di intendersi e di predicare, poi nel far scuola gli ho voluto bene ed ora mi sta a cuore tutto di loro, tutto quello che per loro è bene, persino l’aritmetica che a me non piace e il loro bene è fatto di tante cose: della preparazione politica, sociale, religiosa, della cura della salute. Insomma c’è di tutto. Né più né meno quello che voi fareste e fate per i vostri figli.
Quale ideale potreste propormi che io dessi alla scuola? Le gioie infinite della cultura, per esempio? Io potrei far amare il Leopardi perché è Leopardi. Per la gioia per tutti che è di poter intendere un canto di Leopardi, ma per grande che sia il Leopardi, quando una gioia è individuale è minore di quella sociale. Se io dico “Farò leggere a tutti gli operai del mondo il Leopardi!” è più bello, è in sé più cristiano. Vi parlo da sacerdote perché oltretutto io sono più prete di voi. Io sono prete, se ve lo dico io, si può dire». 2. A colloquio con un Direttore didattico
- «Lei vuole elevare il sapere dal livello individuale ad un piano più universale? Vuole fare amare tutti in modo più universale?».
- Don Milani: «Più universale? Si può far amare anche tutti, ricchi e poveri. Fatelo voi se sapete. Io non so. Io mi contento di aver fatto amare il 90% dell’umanità. La scuola attuale fa amare uno solo: se stessi. Sicché, ho fatto più io. Come allargamento di cuore, gliene do’ più io con il classismo, che non la scuola attuale con l’individualismo. Poi se viene fuori uno che sa fare amare l’umanità intera, alzi la mano, lo seguo. Se trovate il trucco per appassionare i ragazzi ad amare l’umanità intera, ricchi e poveri, oppressori e oppressi, colonialisti e colonizzati, bravi voi. Io non ci riesco. Io riesco a fare amare la scuola e tutto quello che si insegna a scuola, perfino la matematica, perché dico: “domani la insegnerai a un algerino”, siamo cioè sempre tesi a questa passione sociale di lotta. E con questa s’appassiona i ragazzi piccini e quelli grandi. Si può cominciare da piccolissimi: i miei ragazzi di quarta elementare sanno ciò che succede in Algeria. Quindi sono già appassionati e vogliono sapere di più. Così la scuola funziona, non ho nessuna difficoltà a farli stare a scuola quante ore voglio. Non ho nessun problema di ricreazione. Non esiste. La ricreazione è totale. Tra badar pecore e stare a scuola, la scuola è tutta una ricreazione».
3. A colloquio con una Direttrice didattica
- «Lei è capace di rendere amabile, perfino divertente lo stare insieme». - Don Milani: «Le assicuro che non sono molto amabile. Questa è una conferenza e si fa presto a essere amabili, ma io le farei vedere sopportarmi dodici ore al giorno». Nella logica di Gesù di Nazareth che ci rivela il volto di un “Padre di parte” o “partigiano”, le affermazioni di Don Milani forse si comprendono. Si comprende meno che un prete possa volere una scuola aconfessionale, laica.
Già a san Donato Milani dichiarava: «Con una scuola confessionale, farei scappare prima di entrare i figli dei comunisti». Certo il Priore non contro ogni dimensione religiosa, ma è lontano da ogni settarismo. Don Milani afferma che scopo della scuola non è catechizzare, o indottrinare fomentando le divisioni, ma fare crescere in quella dimensione che tutti umanizza. Nella scuola si deve respirare amore, passione per la crescita dei ragazzi. Qualcosa che non è proprio nelle mire di uno stato. E giunge a dire: «La scuola non può essere fatta dallo stato». Con quanto ci siamo appena detti, si tocca con mano che don Milani non vuole che la Lettera sia più di una testimonianza. Non è un modello da imitare. «La scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini». Le reazioni
Ci chiediamo ancora, perplessi, come mai questo piccolo esperimento pedagogico (“scuoletta di montagna”) e la pubblicazione di un libretto, siano potuti diventare la scintilla di una rivoluzione tutt’altro che sopita. Militanti pro e militanti contro discutono ancora. E sembrano fuori della storia quei professionisti dell’educazione che discutono di giovani, movimenti, scuola, nuovi pericoli e nuove opportunità giovanili, ma che mai hanno affrontato le pagine provocatorie del prete e dei ragazzi di Barbiana. Su Lettera a una professoressa, quando esce, si fanno seminari in tutte le università “occupate”, gli studenti la usano contro l’autoritarismo, gli insegnanti per sperimentare nuove forme di didattica, don Sardelli, all’acquedotto Claudio di Roma per riscattare i ragazzi baraccati, autori come Gianni Rodari, vi dedicano scritti e riflessioni. Nonostante questo interesse generale, è opportuno ricordare che Lettera ad una professoressa riguarda, non il liceo o l’università ma la scuola dell’obbligo. Questa infatti è la vera cartina al tornasole per verificare se uno stato è o non è democratico. Non si ha democrazia quando si lascia che le fasce povere restino tali e dunque prive di quelle “parole” che le possano rendere coscienti del mondo in cui si trovano. Ai cafoni si chiede solo di non votare secondo le ingiunzioni della “gente che sa”, di coloro che non hanno bisogno di apprendere “parole a scuola”, perché già le hanno a casa. Ogni uomo, ogni cittadino deve “sapere”, conoscere le “parole” che vengono usate, essere capace di critica, di scegliere con piena autonomia e consapevolezza. Per questo don Milani sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento.
Nella Lettera ai giudici scrive: «Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”».
Era fissazione di un prete bizzarro dare parole ai cafoni perché potessero prendere la parola? Maestre e maestri ritennero di no, che quello doveva essere un problema centrale non di un prete sperduto tra le montagne ma di tutta una nazione civile. Hanno ben compreso: per essi l’originalità dell’esperienza di Barbiana, non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. Rendere possibile a tutti la comprensione e l’uso di parole che si evolvono nella storia e vengono imposte dalle classi egemoni. Chi non comprende il nuovo linguaggio, non ha strumenti neppure per difendersi da esso. L’analfabeta è come un cieco; cade nella fossa che altri gli hanno preparato. Tutto questo comporta che per Lettera ad una professoressa la scuola non è solo trasmissione delle nozioni del passato, essa deve preparare il futuro. «La scuola siede tra il passato e il futuro», dice don Milani, «e deve averli presenti entrambi».
Ma per ottenere che cosa? Non un diploma e neppure una laurea, ma semplicemente una umanità più umana, più consapevole, e quindi più democratica. Una simile meta può sembrare alternativa, ovvia, oppure ideologica, in ogni caso, falsificabile. C’è tra i professori ed i dirigenti scolastici, chi fa dipendere la propria fama dalla percentuale, o dalla massa, dei promossi e non invece dal livello della preparazione dei promossi. C’è chi boccia solo per il gusto di bocciare e costruire la sua fama di prof competente e serio. C’è chi, per omaggio alla moda sessantottina promuove tutti o pretende che tutti siano promossi. Ci sono studenti che vogliono il “18 politico”, confondendo il sacrosanto diritto allo studio con lo stupido diritto alla laurea. E così hanno reso vaga e ipocrita tanta contestazione giovanile.
Ma i ragazzi di Barbiana la pensano diversamente. hanno scritto: «Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata (…) Tentiamo invece di educare i ragazzi a più consapevolezza ed umanità». Conclusione
“Lettera ad una professoressa” ha suscitato entusiasmi, critiche, fraintendimenti, svuotamento dell’aspetto più radicale del suo messaggio, sovrapposizione o strumentale di una parte del Movimento studentesco. Chi oggi per cultura o curiosità rilegge la Lettera è spesso imbevuto di antisessantottismo. E forse non si accorge di leggere in funzione antidemocratica. Rendiamoci conto di un fatto. Il capitalismo liberista di destra ha cessato di essere una opzione politica tra le altre, sensibile al voto popolare, ed è diventato invece un ordinamento e un regime, reso obbligatorio dai trattati e dalle norme su cui è stata “costituita” la forma europea del potere. Le politiche di piena occupazione, di tutela del lavoro, di intervento statale nell’economia, di eguaglianza dei diritti, di rimozione delle cause che di fatto impediscono lo sviluppo delle persone, tendono ad essere proibite per legge (se già non lo sono) nell’Unione Europea. Sarà triste, ma è questa l’aria che spira oggi. Ed in essa che posto può avere la Lettera? Secondo Ernesto Balducci la riforma della scuola del 1974 (Quella dei “Decreti delegati") risponde proprio all’idea milaniana che la scuola debba essere l’espressione della comunità civile in tutte le sue componenti, un invito ai genitori a organizzarsi, appunto, dentro la scuola pubblica. Solo che Barbiana e la Lettera dicono e chiedono anche altro. Come il dovere di non studiare solo per sé, di usare il cervello, di sentirsi persona, di essere coscienti della propria dignità, Giovanni Miccoli, scomparso da poco e tra i più efficaci interpreti del priore di Barbiana, ha scritto: «Parlare o scrivere di don Milani è estremamente difficile. C’è il pericolo di appiattirne l’immagine, di semplificarne i contorni, assimilandolo frettolosamente all’una o all’altra delle grandi contrapposizioni che segnavano allora, e in parte segnano ancora oggi, la società italiana».
Nonostante tutto ritengo che dalla Lettera ad una professoressa si possano ricavare spunti decisivi per orientare la propria visione del mondo e quindi le linee direttrice di una educazione a scuola. Sono convinto che a don Milani dobbiamo molto, anche per valutare la “buona scuola”, quella della farsa dei crediti formativi, della selezione non più di classe ma altrettanto spietata tra vincenti e perdenti. Ci stimola alla riflessione, alla contestualizzazione storica di fenomeni che appaiono immutabili e ci precludono di guardare oltre. Don Milani è morto a 44 anni il 26 giugno del 1967, un mese dopo l’uscita del volume, alla fine di una lunga e dolorosissima malattia. Poco prima di morire disse: «Fra cinquant’anni mi capiranno». Sperava di essere capito dalla società ed anche, soprattutto, dalla chiesa. Papa Francesco ha dichiarato di averlo capito. Ha compiuto una profezia. Resta che capisca il suo messaggio la società. Ciascuno di noi. Se vogliamo riprendere in mano Lettera a una professoressa, dobbiamo collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla nostra esperienza. «Si tratta – come ha osservato un attento critico del Priore – di fare ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni». In definitiva, come ha scritto Gianni Rodari: «Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia meno che uomo, meno che cittadino». Certamente Don Milani – cocciutamente prete-educatore, avrebbe aggiunto: “… meno che cristiano”. Felice Scalia Scarica articolo: 04-Il sogno di una scuola buona.pdf |
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